Davide Valacchi – I to Eye
Da Roma fino a Pechino in tandem: è la sfida di Davide per portare un messaggio di integrazione. Perchè in tandem? Davide è non vedente e questo viaggio è l'occasione per raccontare la cecità in diverse parti del mondo.

Se ne sentono di storie di persone che prendono e partono per fare il giro del mondo. Ma come fare se ti manca la vista? E perché mai in tandem? La storia di Davide è una di quelle che valgono proprio la pena di essere raccontate.

L’intervista a Davide, fondatore del progetto I to Eye

Ho conosciuto virtualmente Davide per questa intervista e l’impressione è subito chiara: Davide è una di quelle persone cristalline, semplici, coraggiose e intraprendenti che vorresti avere conosciuto da sempre. Il suo progetto I to Eye ha un obiettivo semplice: girare il mondo in tandem, raccontare il viaggio e aiutare i disabili nei Paesi in via di sviluppo per la promozione di un viaggio sostenibile, inclusivo e indimenticabile. Leggi l’intervista per saperne di più e per conoscere aneddoti, emozioni e insegnamenti di un viaggio lungo 12.000 km.

Ciao Davide! Raccontaci brevemente chi sei.

Ciao a tutti! Sono Davide Valacchi, ho 29 anni e sono nato ad Ascoli Piceno, dove ho vissuto fino all’età di 19 anni; da 6, invece, vivo a Bologna. Sono laureato in Psicologia Clinica e amo viaggiare, lo sport e la vita all’aria aperta. Sono non vedente dall’età di 9 anni.

In cosa consiste il progetto I to Eye?

I to Eye si pone l’obiettivo di promuovere lo sport – con un focus specifico sul tandem – come mezzo di inclusione sociale per i disabili, in particolare visivi. Il progetto vuole anche raccontare in viaggio on the road da un punto di vista alternativo, cioè quello di un non vedente, nonché il rapporto unico che si crea tra le due persone che viaggiano in tandem. Si intrecciano, insomma, i temi di viaggio, inclusione e disabilità.
I to Eye si propone anche di individuare un’associazione (un comitato paraolimpico, una federazione, un’associazione) in diversi Paesi, preferibilmente in via di sviluppo o comunque economicamente più in difficoltà del nostro, per lasciare in donazione i tandem su cui abbiamo viaggiato; lo scopo è dare un impulso alla nascita del ciclismo su tandem per disabili visivi in quel determinato Paese e, allo stesso tempo, indagare come in quel Paese la società vede e gestisce la condizione di chi ha problemi di vista.

Da dove hai preso l’ispirazione per il progetto?

Il progetto è nato su ispirazione di un altro viaggio, che un mio amico di Fano ha intrapreso nel 2017 pedalando per 7.500 km attraverso l’Europa. Ispirato da lui, mi è venuto in mente di unire le mie passioni per il viaggio e per il tandem; una volta deciso, ho iniziato a cercare delle persone che volessero condividere con me quest’esperienza, fossero anche degli sconosciuti. Ho trovato le persone giuste nell’aprile del 2018.

Quando si è svolto il viaggio? Quanto è durato? Quali Paesi avete toccato?

Il viaggio si è svolto dall’8 marzo al 25 ottobre del 2019: sette mesi e mezzo pedalando in modo assolutamente autonomo su un tandem, da Roma al Kazakistan, per un totale di 12.000 km. Abbiamo attraversato 13 Paesi dell’Europa e dell’Asia, nell’ordine: Italia, Slovenia, Croazia, Serbia, Bulgaria, Turchia, Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan, e Kazakistan. L’idea iniziale era quella di concludere il viaggio a Pechino ma, per una serie di motivi burocratici, la Cina non ci ha concesso il visto.
Abbiamo viaggiato trasportando con noi tutto il materiale necessario alla vita quotidiana on the road; alla guida del tandem si sono alternati Michele Giuliano – un mio amico cuoco di Bologna che ha guidato il tandem fino a Teheran, da marzo a giugno – e poi Samuele Spriano, personal trainer di Varese che ha guidato da Teheran in poi. Da Teheran Michele sarebbe dovuto tornare a casa, ma il richiamo del viaggio è stato più forte: ha comprato una bici e l’attrezzatura necessaria, e ha continuato a pedalare con noi lasciandoci soli soltanto nell’ultimo mese di viaggio.
Abbiamo pedalato un po’ in tutte le condizioni: dalle aree urbane a quelle di campagna, da quelle boschive fino alle montagne e ai deserti, con temperature comprese tra 0 e 55°. Compresi noi e i bagagli, il tandem pesava 230 kg, arrivando anche a 250 nelle giornate nel deserto, dove ci serviva tanta acqua.

Come mai il tandem come mezzo di trasporto?

Ho scelto il tandem perché è l’unico mezzo di trasporto in cui io, non vedente, posso dare un contributo allo spostamento, non guidando ma pedalando. In più, a differenza di tutti gli altri mezzi di trasporto, non c’è una barriera tra me e l’esterno: questo mi permette di percepire suoni, rumori, la strada sotto le ruote, le persone che parlano… è, insomma, un altro modo per abbattere la barriera della mancanza della vista.
Con il tempo, ho imparato a interpretare i segnali della natura per potermi creare un panorama – non visivo, ma mentale – di quello che mi circondava: questo è, per me, il senso più forte del viaggiare in tandem.

Quali sono stati i momenti più emozionanti del viaggio?

Credo che tutta la fase della partenza sia un momento magico di ogni viaggio: lo si immagina, lo si desidera, si saluta la propria terra, i propri amici e familiari…
In seguito, ho provato una fortissima emozione poco prima di Teheran: abbiamo letteralmente spaccato in due il telaio del tandem, ed è arrivata la paura che il viaggio sarebbe potuto finire lì. Per fortuna, Samuele sarebbe dovuto arrivare a Teheran dopo 10 giorni: l’ho mandato in Veneto da un mio amico non vedente per comprargli il tandem, che poi ha smontato e trasportato in aereo. Una volta ripartiti con il nuovo tandem, abbiamo riparato quello vecchio e l’abbiamo poi donato al comitato paraolimpico di Teheran; il telaio non era affidabile per proseguire il viaggio, ma andava comunque bene per passeggiate in città.
Un altro momento che ricordo con emozione è senz’altro l’attraversamento del Pamir, in cui ho potuto percepire tutte le sensazioni di un ambiente estremo. Quello è stato il momento in cui ho meno sentito la mancanza della vista in tutta la mia vita: per un mese siamo stati in contatto quasi esclusivo con la natura, provando emozioni che sono state in grado di compensare il vuoto lasciato dalla cecità.
Infine, vorrei raccontare di quando abbiamo donato l’ultimo nostro tandem a Siyovush, un ragazzo non vedente di Dushanbe; ho deciso di regalare il tandem a lui quando la Cina ci ha negato il visto e abbiamo saputo che il nostro viaggio sarebbe finito lì, e l’ho fatto perché lui è stata la persona che più mi ha colpito in assoluto durante il viaggio: speravo che questo regalo avrebbe potuto cambiargli la vita e così è stato, infatti lo usa ogni giorno.

Hai qualche aneddoto divertente da raccontare?

Ne racconto due!
Diverse volte siamo stati inseguiti da un cane, ma la prima volta è stata la più esilarante: era a fine maggio, stavamo pedalando sulle montagne della Turchia e ho sentito un cane abbaiare da lontano. Non gli ho dato troppo peso, ma nel giro di pochi minuti il cane era a un metro da noi! Era grande, correva velocissimo e non sembrava affatto amichevole: abbiamo iniziato a pedalare all’impazzata, per di più in salita. Quando abbiamo iniziato a distanziarlo e stavo ormai per vomitare dallo sforzo, di fronte a noi si presentano altri tre cani, ancora più grossi. Lì ci siamo fermati e ci siamo preparati a un destino funesto… in realtà forse il primo cane aveva oltrepassato la proprietà degli altri tre, perché questi se la sono presa con lui e allora noi siamo riusciti ad andarcene.
A Bushanbe, invece, abbiamo fatto amicizia con Parvis, il presidente del comitato paraolimpico, in sedia a rotelle e senza gambe perché tranciate da un treno mentre giocava da piccolo. Per ringraziarci del nostro dono a Siyovush, che fa parte del comitato, la penultima sera del nostro viaggio ha preso me, Samuele e mio fratello – che era venuto a trovarci l’ultima settimana – e ci ha portato in giro per le squallidissime periferie della città, cercando in tutti i modi di convincerci ad andare con una delle prostitute sue amiche, alcune decisamente non giovani e sobrie; tutto questo perché, a suo dire, lì in Tagikistan le prostitute vanno gratis con i disabili. È stata una scena davvero divertente! Alla fine, lui voleva solo fare due risate e per fortuna non se l’è presa per il nostro rifiuto.

In che modo credi che la tua cecità abbia influenzato questa esperienza, nel bene e nel male?

Credo che la mia cecità abbia aumentato la curiosità – devo dire già molto alta verso i cicloviaggiatori – delle persone che incontravamo nei miei confronti: tutti si stupivano nel vedere un viaggiatore non vedente in bici e quindi, magari, si approcciavano a noi con più facilità. Questo mi ha dato la possibilità di conoscerli meglio e di entrare ancora più a contatto con loro.
La cecità mi è anche stata utile per aumentare il livello di ingegno messo in atto per dare una mano nel quotidiano, livellando così il mio rapporto con i miei compagni di viaggio. Intendo che ovviamente non ho mai potuto guidare, risolvere problemi di meccanica e fare tante altre cose; quindi ho cercato di rendermi utile facendo tante altre cose pratiche, dal montare la tenda a preparare l’accampamento, nonché organizzando tutta la fase logistica di cui mi sono occupato prima di partire.

Qual è la lezione più importante che questa esperienza ti ha insegnato?

L’insegnamento più grande è stato questo: ho notato che maggiore era il livello di povertà, o comunque difficoltà, delle popolazioni che incontravamo, maggiore era il livello di solidarietà nei nostri confronti. Nelle grandi metropoli e in Paesi come Italia e Slovenia, erano poche le persone che ci salutavano – se non qualche colpo di clacson – e che, soprattutto, ci chiedevano se avessimo bisogno di qualcosa. Quando invece passavamo nei villaggi dell’Iran, del Kazakistan, ma anche della Turchia, venivamo continuamente fermati da persone che ci chiedevano se avessimo bisogno di acqua, di cibo, di qualsiasi cosa. Si percepiva proprio la loro voglia infinita di stare con noi: per loro era un po’ come viaggiare, cosa che, per motivi burocratici, politici e soprattutto economici, non possono fare praticamente mai.
Dopo sette mesi di quella vita, una volta tornato in Italia ho percepito una certa freddezza e un certo individualismo nella nostra società che ancora mi pesano; per questo sto pensando di partire presto per altri viaggi.

Ti piacerebbe raccontare di questa esperienza in un libro? Ci sono dei libri di viaggio che ti hanno ispirato?

Mi hanno chiesto in molti di scrivere un libro sul mio viaggio; devo dire che a me piace anche scrivere ma, sinceramente, un libro lo scriverei in seguito ad altri viaggi che ho in programma di fare. Credo che sia qualcosa per cui non bisogna sforzarsi, ma che venga da sé.
Come dicevo mi piace scrivere… molto più che leggere: sono stato un forte lettore fino ai 15 anni, ma poi ho iniziato a dedicarmi ad altre attività. Tra i libri di viaggio, però, consiglio Vagabondiario, un libro-diario molto simpatico scritto dal mio amico Claudio Piani. E poi ovviamente c’è il mio idolo Walter Bonatti; in particolare, L’ultima Amazzonia e In terre lontane sono libri che mi hanno segnato molto.

Parlaci dei progetti attuali e futuri legati a I to Eye.

Ho due tandem che mi sono stati donati e che voglio donare a mia volta alla fine di un viaggio. Il primo è il regalo di un signore non vedente abruzzese: ci ha seguito su Facebook durante il viaggio, si è appassionato e mi ha fatto questo dono con la promessa che avrei fatto altri viaggi. Il secondo, sempre con la promessa di una nuova donazione, è stato il dono di un telaista di Padova, che si chiama Vetta.
Covid permettendo, ho in programma un viaggio breve – due settimane – sulle montagne del Caucaso georgiano, a giugno 2021. Attualmente sto entrando in contatto con la locale federazione sportiva dei non vedenti per regalare loro il primo tandem.
E il secondo? Ancora non so! Forse lo donerò in Africa: per l’estate scorsa c’era in programma un viaggio, saltato a causa Coronavirus, in Togo e Benin. Un viaggio mi piacerebbe farlo anche con mio fratello: si è da poco appassionato alla bici, e credo che sia successo proprio perché vorrebbe fare un viaggio con me.
In realtà, il progetto che davvero è nel mio cuore e che amo chiamare “Il grande viaggio” è quello dall’Alaska alla Patagonia: 36.000 km per attraversare tutto il continente americano, per circa un anno e mezzo di viaggio. Lo sto iniziando a progettare fin da ora e mi piacerebbe realizzare un documentario; vorrei sfruttare l’eventuale risonanza e il ricavato per aprire un’attività tra le montagne italiane. Una sorta di centro sportivo, turistico e didattico di attività inclusive all’aria aperta; non un centro per disabili, quindi, ma uno dove possa andare chiunque e dove ci sia la possibilità anche per chi non può vedere o camminare di praticare mountain bike, escursioni, arrampicata, canoa… Questa è la direzione che vorrei che I to Eye prendesse nei prossimi anni.

Grazie Davide, lascia un saluto ai nostri lettori!

Tutti quelli che trovando interessante la storia di questo progetto cominceranno a seguirci – sulla pagina Facebook di I to Eye –, ci aiuteranno a raggiungere più anime possibili e, magari, a ispirare non solo chi ha una disabilità, ma chiunque, a combattere i propri limiti, abbattendoli e trasformandoli in vantaggi. Allo stato attuale non mi reputo uno sfortunato per il fatto di non vedere: credo sia un problema come qualsiasi altro che si possa avere nella vita e, quindi, pienamente affrontabile. Se mi è concesso dare un consiglio, direi questo: a un certo punto, è giusto smettere di sognare e passare all’azione; un po’ per tutto nella vita, ma per i viaggi in particolare.

Intervista di Agnese Sabatini

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