Copertina del libro
Copertina del libro "Il mio Everest" di Theodore Howard Somervell

La recensione di Il mio Everest di T. Howard Somervell ti porterà (quasi) in cima a una delle vette più alte e maestose del mondo; ma ti porterà anche indietro nel tempo, tra una Londra e una India vissute da un uomo umile, buono e coraggioso.

Confesso di provare un senso di vergogna quando considero che una nazione illuminata come la nostra, alcune generazioni fa, ha imposto l’interesse occidentale alla bellezza orientale, rovinandola.

Il mio Everest di T. Howard Somervell: una vita da Londra all’India

Nel 1936, Somervell dà alle stampe il libro in cui racconta la sua partecipazione alle spedizioni sulla catena dell’Himalaya. Ma Il mio Everest di T. Howard Somervell è molto di più: è una sorta di autobiografia di un uomo che sembra aver vissuto molte vite.

Somervell nasce nel 1890 da una buona famiglia inglese; sin dalle prime righe si nota l’amore per la sua terra e, soprattutto, per i suoi genitori a cui deve tutto il buono che c’è in lui. A un periodo giovanile molto sereno – “che periodo splendido l’infanzia – l’età d’oro – il paradiso! È meraviglioso essere semplici, desiderare appassionatamente, detestare intensamente, non aver paura del futuro, raffigurarsi il mondo senza mezze tinte” – si contrappone una giovinezza dura, a causa della partecipazione alla Prima Guerra Mondiale come medico nei Royal Army Medical Corps. Somervell aveva infatti studiato per diventare medico, ed è proprio sul campo di guerra che si affina la sua esperienza professionale. È interessante leggere il punto di vista sulla guerra di una persona che l’ha vissuta sulla propria pelle: “la guerra ha fatto parecchie cose per me e per molti altri. Fu una bella educazione, sul buono e anche sul diabolico che c’è nell’uomo. Costrinse al cameratismo e persino all’amicizia persone che non si sarebbero mai sognate di diventare amici. Mostrò quanto di buono c’è nel peggiore di noi, ma anche quanto di cattivo nel migliore. Inoltre, ci insegnò l’umiltà: nessuno di noi era realmente essenziale e lo show andava avanti comunque”.

Un lungo viaggio in India stravolge la vita di Somervell che, altrimenti, avrebbe potuto godere di una prestigiosa e promettente carriera come chirurgo a Londra. Il fatto è che, dopo aver visitato l’Ospedale Missionario di Trevancore in India, capisce di non poter più tornare indietro: decisi, senza esitazioni, che sarebbe stato il mio lavoro. Spesso ho raccontato ai miei amici che se non avessi risposto a quella chiamata non avrei più osato pregare Dio. Nessun uomo che abbia visto una tale sofferenza e non abbia agito per porvi rimedio può dirsi cristiano. E sulla base dei suoi profondi valori cristiani, Somervell trascorre la sua vita tra l’India – con la moglie e i figli – e le lunghe licenze che lo portano a Londra, dai familiari, oppure a scalare la sua amata montagna.

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Dalle Alpi all’Everest: montagna, che passione

“Finalmente, nel febbraio del 1922 tutto era pronto e ci imbarcammo nella vecchia P&O Caledonia per Bombay”. Comincia così la spedizione inglese del 1922 sull’Everest, a cui Somervell fa parte in qualità di esperto e appassionato alpinista. A parte una precedente di ricognizione, si tratta della prima vera spedizione sull’Everest, e la prima con le rudimentali bombole di ossigeno tra l’equipaggiamento. Somervell parteciperà poi anche alla spedizione del 1924; entrambe finiranno in tragedia, con la morte di alcuni sherpa nel ’22 e dei compagni e amici Mallory e Irvine nel ’24. Ma non mancheranno mai il coraggio, la forza di volontà e l’entusiasmo della sfida.

Non mancheranno mai, neanche, l’umiltà e l’accettazione, la capacità di valutare i benefici e di metterli in relazione ai rischi. Quando Somervell e l’amico Norton decidono di tornare indietro, egli commenta così: non era stata la neve fresca o la tormenta o il freddo intenso a privarci della vetta. Eravamo solo due fragili esseri umani e l’immane compito che la Natura ci aveva imposto era troppo per noi. In Il mio Everest di T. Howard Somervell, insomma, la scalata si configura in qualche modo come metafora della vita: è necessario sapere quando andare ma anche quando fermarsi, riconoscere i pericoli e non strafare in nome di un obiettivo che potrebbe risultare fatale; conoscersi e conoscere l’ambiente per prendere ogni volta la decisione più giusta, trovando l’equilibrio perfetto tra rischio e prudenza.

Il mio Everest di T. Howard Somervell: autobiografia di un uomo straordinario

Il mio Everest di T. Howard Somervell è un racconto che ha quasi 100 anni di vita; eppure alcune considerazioni, specialmente riguardanti religione e colonialismo, sono ancora estremamente attuali. In merito all’ultimo, ad esempio, Somervell così scrive: confesso di provare un senso di vergogna quando considero che una nazione illuminata come la nostra, alcune generazioni fa, ha imposto l’interesse occidentale alla bellezza orientale, rovinandola. Delhi non è solo un monumento al nostro vandalismo ma anche alla nostra mancanza di immaginazione, alla nostra incapacità di metterci nei panni di coloro nel cui paese ci troviamo. Lui, in effetti, dimostra di essere una persona ben diversa dai suoi compatrioti: lavorando come medico missionario, si assume la responsabilità di curare e guarire molte malattie e condizioni diverse. Si impegna a studiare il Tamil, rammaricandosi delle incomprensioni che esistono tra indiani e inglesi a causa del fatto che questi ultimi non sentono il bisogno di imparare la lingua locale.

Ma soprattutto, quella che traspare da Il mio Everest di T. Howard Somervell è l’immagine di un chirurgo competente, di un pittore talentuoso, di un alpinista di valore. Di un uomo forte e coraggioso. Somervell racconta i suoi successi in modo semplice; non spaccia mai le sue vicissitudini per cose troppo facili o troppo difficili, in lui c’è sempre un bellissimo equilibrio tra l’umiltà e la consapevolezza dei propri mezzi. Dalla lettura de Il mio Everest, è impossibile non notare – e non apprezzare – quanto Somervell sia stato una persona buona, onesta e caritatevole nei confronti della natura e di tutti gli uomini.

Recensione di Agnese Sabatini

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