La recensione di Le montagne e il profumo del mosto di Alberto Paleari racconta una storia che, in realtà, è composta da tante storie diverse: l’amore per la montagna, quello per il vino, e un racconto familiare dolceamaro.
Le montagne e il profumo del mosto di Alberto Paleari: cronistoria di famiglia e di vino
A un certo punto della sua storia, Alberto Paleari scrive “di avere una sensazione fortissima di avere avuto, o di avere vissuto, all’interno della lunga storia della mia vita, molte vite, una diversa dall’altra, di essere stato tante persone diverse e che, finita una vita, chiusa l’esistenza di una delle tante persone che sono stato, la mia memoria abbia messo una pietra tombale sopra quella persona e che scavare sotto quella pietra per ritrovare almeno lo scheletro della vecchia esistenza sia ormai impossibile“. Ma per quanto dica che scavare sia difficile, in Le montagne e il profumo del mosto Alberto Paleari ci regala meravigliose istantanee di una vita lunga e vissuta in tutta la sua pienezza.
Alberto è figlio del Dopoguerra e di due genitori che, nel boom economico degli anni ’50 e ’60, gestiscono una piccola ma florida attività vinicola a Gravellona, a due passi dal Lago Maggiore. Le montagne e il profumo del mosto è prima di tutto una storia familiare, che inizia dall’infanzia del protagonista e termina… mai, forse non termina mai. Le pagine che parlano della famiglia Rossi-Paleari trasudano dolcezza e amarezza, malinconia e rifiuto, vicinanza e lontananza. Dall’inchiostro escono nitidi i tratti di una madre fortissima e volitiva ma a tratti asfissiante (tanto che, come scrive Alberto, “staccare i figli dalle madri dovrebbe essere il compito principale della società”); di un padre che sembra avere tutto ma che, forse, non ha niente; del mitico zio Lino e della dolce nonna Gina; di tutti i personaggi che, prima o dopo, compaiono nella vita della ditta Rossi e di Alberto come figure a volte comiche, a volte angeliche, a volte solo un po’ strane.
Il padre di Alberto è una figura che non passa inosservata; così potrebbe essere descritto in poche parole: “malgrado facesse spesso la voce grossa, malgrado il carattere collerico e la paura che sapeva incutere, mio padre era un uomo gentile, lo si capiva anche dal suo modo di guidare, infatti ci sono due tipi di guidatori, quelli che lungo le strade di montagna fanno vomitare i bambini e quelli che non li fanno vomitare, mio padre apparteneva al secondo tipo e io mi sforzo di essere come lui. […] Lui non riusciva a lavorare insieme a gente che non ritenesse degna del suo amore, cioè che non stimasse, e per essere degni del suo amore e della sua stima bisognava essere intelligenti: mio padre odiava gli stupidi”. Ma poi, quando Alberto ha 21 anni, suo padre scompare in circostanze che lasciano in lui un segno violento, una vera e propria voragine. Andandosene, il padre gli lascia un pesante fardello sulle spalle: quello della gestione della ditta Rossi. Per Alberto sembra un fardello troppo grande da sopportare ma, forse, suo padre sapeva che ce l’avrebbe potuta fare, e che questo l’avrebbe reso una persona migliore.
Così, in altre pagine di Le montagne e il profumo del mosto, Alberto Paleari racconta del suo amore-odio verso la ditta Rossi ma, soprattutto, trasmette la forte passione per il vino e per tutti i segreti contenuti in un acino d’uva, in un misterioso processo di fermentazione, in un calice che viene fatto volteggiare. Nonostante la sua vita prenda presto una direzione completamente diversa, anche oggi Alberto non ha paura di dire che “nulla mi dà un maggior senso di sicurezza, un sentimento di non aver niente da temere dal futuro e dalla vita, che sapere di avere in cantina ottanta bottiglie piene di buon vino”.
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La vera vocazione di Alberto: la montagna
Da giovane Alberto si iscrive alla facoltà di Filosofia e, poi, viene “incastrato” dalla scomparsa del padre alla gestione della ditta. La passione per la montagna, trasmessagli dai genitori e mai sopita, acquista sempre più importanza quando Alberto diventa guida alpina; nei primi anni ’80, una volta chiusa la ditta, si dedicherà esclusivamente solo a quello. Di nuovo, il merito è in qualche modo del padre che, con il suo fallimento, salva Alberto dal suo: “entrando a lavorare nella ditta Rossi, ebbi l’alibi per non laurearmi e per dedicare tutto il mio tempo libero all’alpinismo, che molto più della filosofia, era la mia vera vocazione”.
In moltissime altre pagine di Le montagne e il profumo del mosto, Alberto Paleari racconta allora di questo suo grande amore, che richiede spesso lucidità e fermezza. In certi momenti, occorre prendere decisioni che sono vere e proprie questioni di vita o di morte: esistono, ad esempio, migliaia di modi per appoggiare un piede su una roccia, ma solo uno è quello giusto, quello che salva te e i tuoi compagni da morte certa.
La montagna dona gioie e soddisfazioni, ma anche amarezza quando le cose non vanno come dovrebbero; è il caso dei due racconti in cui si assiste alla morte di un alpinista – prima un amico, poi una guida –, di fronte a cui Alberto non può fare niente. Qui emerge la vitale differenza tra “soccorso” e “salvataggio”: il soccorso alpino soccorre, appunto, ma non sempre riesce a salvare, lasciando in questi casi lunghi strascichi di scoraggiamento e senso di sconfitta. A volte, sono i soccorritori alpini a perire loro stessi nel tentativo di salvare qualcun altro. Anche se questo è quasi sempre dovuto a un loro errore, queste persone non andrebbero mai biasimate; piuttosto, andrebbero celebrate la bellezza e l’eroicità dei loro gesti, che per loro sono scontati e dovuti ma che, in realtà, sono sempre atti di amore incondizionato verso gli altri esseri umani.
Le montagne e il profumo del mosto: quando sei tu a finire dentro a una valanga
In Le montagne e il profumo del mosto, Alberto Paleari racconta di essere finito due volte in mezzo a una valanga. Nella prima, negli anni ’70, per fortuna la neve non si compatta e lascia degli spiragli da cui Alberto riesce a respirare per oltre un’ora, prima che l’amico Luigi lo ritrovi.
La seconda capita diversi decenni più avanti, con vista Monte Rosa. Quando la neve fredda spazza via Alberto all’improvviso, una serie di pensieri si affacciano nella sua mente: “il primo pensiero che ebbi fu: vabbè, sessant’anni è una cifra tonda. […] Intanto mi accorsi che la velocità stava rallentando, il secondo pensiero che ebbi fu infatti: non va così male, se adesso si ferma sono salvo. Purtroppo il terzo pensiero fu: bastarda, non s’è fermata”.
In quei brevissimi ma lunghissimi momenti, l’aldilà appare chiaro nella mente: di fronte agli occhi passano le paure e gli amori, le filosofie e tutte le arti, la grandezza o la meschinità di vite intere. Tutto sembra avere senso, e niente sembra averne. Alla fine, Alberto riesce a uscire dalla valanga incolume ma, a ripensarci, per lui la morte non sarebbe stata così tragica, perché “la vita mi ha dato molto: l’amore di donne meravigliose, la consolazione e le ansie della paternità, Cechov, il vizio ostinato della lettura e quello disperato della scrittura, una sera sui gradini del Partenone, il Requiem tedesco di Brahms alla Scala, soprattutto le montagne e il profumo del mosto”.
Recensione di Agnese Sabatini