Copertina del libro
Copertina del libro "Le vie dei canti" di Bruce Chatwin

IL CAMMINO DEL VIAGGIATORE IRREQUIETO

Quando qualcosa dentro di te si agita non puoi lasciare che ciò che ti sta intorno rimanga immobile e immutato.
Sarà per questo che a un certo punto Bruce Chatwin decide di chiudere con il suo lavoro di esperto d’arte e di seguire quella vocazione al nomadismo che percepiva come radicata nello spirito di tutti gli uomini, in quanto condizione originaria dell’essere umano.

Nel leggere Le Vie dei Canti la motivazione di quella scelta ha quasi l’eco di una parabola antica, come quelle tipiche di un monaco orientale che sa come illuminarti il cammino. Chatwin sosteneva, infatti, che a forza di guardare le cose troppo da vicino, quel mestiere gli stava rovinando la vista. Sentiva quindi la necessità di allontanarsi, per ampliare i propri orizzonti, attraversando gli ampi spazi del deserto.
E decide di farlo recandosi ad Alice Springs, per incontrare Arkady Volchok, l’ingegnere russo che ha il compito di tracciare il percorso della ferrovia transaustraliana. Un obiettivo che scatena l’interesse di Chatwin perché gli permette di prendere parte ad una mappatura incredibilmente affascinante: quella de Le Vie dei Canti , dette anche Piste del Sole. Una topografia di sentieri invisibili che coprono tutta l’ Australia e che gli aborigeni chiamano Orme degli antenati o Via della Legge. Si tratta di percorsi considerati sacri, perché appartengono al cosiddetto tjukurpa ‘tempo della creazione’, o Dreamtime cioè ‘tempo del sogno’, ovvero il mito aborigeno della Creazione, base di tutte le credenze degli aborigeni australiani .

“Non perdere la voglia di camminare. I pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata.”

UN MONDO DI PASSI

Per gli aborigeni lo stato precedente alla creazione del mondo era quello del caos, dove al posto di quella che poi divenne la terra, c’era inizialmente una distesa piatta e informe dalle potenzialità inespresse. Un giorno gli Antenati totemici, svegliatisi dal loro sonno, sgusciarono fuori da questa materia indifferenziata e camminando per lo spazio in lungo e in largo cominciarono a cantare tutti gli elementi della terra, dando origine alla Creazione. A ogni passo un nome.
Finita la Creazione gli Antenati tornarono dentro la terra, lasciando su di essa la traccia dei loro percorsi, quelli che Chatwin ha definito appunto ‘le vie dei canti’.
Vie che vengono ripercorse dagli aborigeni australiani durante la famosa pratica del Walkabout, letteralmente ‘camminare intorno’: un viaggio rituale che consiste nell’attraversare a piedi le distese del bush australiano ricalcando i sentieri della geografia totemica.
Un cammino del quale Chatwin ci fa scoprire il lato più ancestrale e magico, mostrando al lettore come quell’incessante andare mitologico dava origine a un vero paesaggio magico che andava a sovrapporsi a quello fisico, trasfigurando ogni fiume, albero, roccia in qualcosa di simbolico.

Affrontare ogni volta questo cammino, di generazione in generazione, significa riportare in vita i luoghi degli antenati: per ogni aborigeno camminare e cantare per questi sentieri è un dovere, perché ripercorrerli ogni volta equivale a camminare sulle orme degli antenati che hanno dato origine alla Creazione. Interrompere la tradizione di questi cammini significherebbe interrompere la creazione del mondo, il quale ripiomberebbe nel caos. Finché i canti verranno ripetuti il Tempo del Sogno vivrà.
Ѐ così che ogni fiume, ogni montagna, ogni albero vengono compresi – nel senso letterale di ‘presi dentro’ – all’interno di una vera e propria topografia musicale, disegnata attraverso il camminare.

UN LIBRO NOMADE PER MENTI VAGABONDE

Leggere un libro come Le Vie dei Canti è come fare un viaggio dentro al viaggio.
Tra le sue pagine, infatti, si legge la storia delle esperienze erranti di un Chatwin irrequieto ma, al contempo, il lettore potrà intraprendere un’esplorazione che attraversa anche diversi generi.
Lo scrittore ripercorre la sua infanzia e ci regala delle affascinanti notizie autobiografiche che ci permettono di intravedere quell’icona esistenziale che sarebbe diventato.
Rievoca i tempi dell’infanzia e della gioventù, trascorsi in Inghilterra in compagnia della madre e di quelle zie un pò stravaganti che amavano la pittura e la poesia.
Il suo riferimento al padre, però, è quello più interessante.
Chatwin , infatti, era figlio di un ufficiale della Marina, costantemente lontano da casa. E proprio in questa condizione egli sembra trovare il seme di quella onnipresente vocazione al viaggio che lo rendeva così inquieto.
Una riflessione dalla quale prenderà avvio quella piega, quasi antropologica, che renderà il libro, per certi aspetti, una sorta di saggio sul nomadismo.

Chatwin rivela un acuto spirito di osservazione e una perizia quasi da ricercatore. Strumenti che sfrutta per mostrarci che lo spirito dell’uomo è nomade e che le case, le città e il lavoro che caratterizzano la vita di ogni essere umano, in realtà costituiscono delle prigioni che piegano l’uomo a uno stile di vita contrario alla sua natura dinamica.
La sua narrazione è incredibilmente camaleontica e i suoi pensieri scavano in profondità, non solo nell’interiorità del genere umano, ma anche dentro i meccanismi della società.
Non a caso egli torna a battere sul nomadismo come antidoto a quelle sopraffazioni che, secondo lui, nascerebbero da uno stile di vita che impone agli uomini di vivere insieme in spazi ristretti.

La prima parte del libro è una vera e propria narrazione “on the road”, costellata dagli incontri più interessanti che scandiscono il viaggio di Chatwin : gli aborigeni che hanno perso le proprie terre e che vivono chiusi in campi ristretti, condizione che li ha portati all’alcolismo e all’esposizione a pericolose radiazioni provocate dagli esperimenti che gli europei hanno compiuto sui loro territori.
La narrazione, infatti, è anche un’ottima lente per osservare le reali condizioni in cui versava un popolo continuamente soggetto a soprusi e privato delle proprie radici identitarie. Tuttavia Chatwin ci mostra tali condizioni senza scadere in toni pietisti o noiosamente giornalistici.
Tra i diversi incontri leggiamo anche degli attivisti politici, dei missionari e dei mezzosangue.
Al centro di questo panorama umano poi c’è lui, il Virgilio che guida Chatwin verso la discesa nelle profondità del deserto australiano e dei suoi percorsi invisibili: l’ingegnere Arkady.
Grazie a lui lo scrittore potrà riempire le sue famose Moleskine con quelle riflessioni che lo avrebbero portato a scrivere Le Vie dei Canti .
Lungo il testo, poi, troviamo qui e là anche i ricordi degli altri viaggi compiuti da Chatwin , i racconti dei suoi incontri con l’etologo Lorenz e altre riflessioni.

Recensione di: Gabriella Ferracane

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