Copertina del libro
Copertina del libro "Le voci di Marrakech" di Elias Canetti

IL DIARIO DI VIAGGIO DI UNA VOCE FUORI DAL CORO

Non si può comprendere appieno un libro come Le voci di Marrakech , senza prendere in considerazione quel mosaico culturale e geografico che è la vita di Elias Canetti . Un uomo nato in Bulgaria, e quindi da subito avvolto da quello che era il caos multilinguistico e policentrico dell’Europa dell’Est, ma anche un ebreo sefardita le cui origini culturali avevano le proprie radici in Spagna.
Una vita dalle coordinate geografiche multiple, così come lo sono anche i punti di vista dell’autore, famoso tra critici e studiosi proprio per il rifiuto di ogni sistema chiuso e per la fondamentale importanza che ha sempre dato al concetto di metamorfosi, soprattutto in relazione all’identità.

“Provavo soggezione davanti a quel piccolo ambiente nel mezzo del deserto, pieno di candele, fatto solo di candele. Sprigionavano quiete e serenità, come se nulla potesse finire del tutto finché bruciavano le candele. Forse quelle tenui fiammelle erano ciò che rimaneva dei morti.”

Non a caso, il libro che qui andremo ad analizzare, è proprio il frutto di un viaggio che permette allo scrittore di tornare a quella dimensione del molteplice che aveva momentaneamente messo da parte in nome di un progetto più grande.
Dopo il grande lavoro letterario e culturale che aveva portato alla scrittura di Massa e Potere, infatti, Elias Canetti si era imposto una pausa da qualsiasi altra forma di scrittura. Una pausa forzata e necessaria, finalizzata al recupero di tutte quelle energie intellettuali che erano andate esaurite.
Ed è proprio in quel periodo che un suo amico regista lo invita a trascorrere un pò di tempo a Marrakech , dove lui e la sua troupe stavano girando.
Un invito che per Canetti si rivela come l’occasione per abbracciare quella catarsi che lo avrebbe liberato da un’identità alla quale si era assuefatto per via di quel lavoro che lo aveva costretto a concentrarsi sugli stessi temi, in maniera quasi ossessiva.
È così che Marrakech si trasforma in una bussola capace di riportare lo scrittore nella posizione che egli stesso ha sempre privilegiato, ovvero quella di chi sceglie di stare ai margini, di chi sa che per osservare il mondo, e ogni suo fenomeno senza pregiudizi, bisogna restare sulla soglia, così da poter essere al contempo dentro e fuori da ogni realtà assolutizzante.

Non stupisce, quindi, che pur avendo speso diversi anni della propria vita in varie città, Canetti scelga di dedicare la propria penna proprio a Marrakech .
E lo fa scrivendo Le voci di Marrakech : un resoconto che potrebbe esser definito come un semplice diario di viaggio, se non fosse per la prosa brillante che regala al lettore una polifonia di suoni, colori, voci e sensazioni.
Un ricco caleidoscopio che nasce anche grazie al fatto che l’autore ha la straordinaria capacità di assumere una specie di identità a più livelli, ponendosi come soggetto che è coinvolto dai vari contesti e al contempo estraneo a ognuno di questi. Merito di un’incredibile capacità di fare autoriflessione, che gli permette di essere parte dell’esperienza e al tempo stesso di poterla raccontare con occhio sempre critico.

ASCOLTARE I LUOGHI PER VEDERLI DAVVERO

Il modo in cui Canetti ci racconta Marrakech , con i suoi luoghi e le sue persone, obbedisce a una precisa volontà di soppiantare quella narrazione monocromatica, tipica dei diari di viaggio, che spalancano la scrittura quasi unicamente alla dimensione del visibile.
Ciò che l’occhio è in grado di ghermire, di abbracciare, di scrutare, trova sempre grande spazio nella narrativa di viaggio.
La vista ha come il predominio delle pagina erranti di ogni scrittore-viaggiatore.
Diversamente Canetti , pur evocando suggestioni visive, preferisce controbattere con una narrazione che privilegia la dimensione uditiva, l’incontro e un attenzione per i luoghi che va oltre le tipiche categorie culturali dell’Occidente.

Il suo viaggio, prima vissuto e poi raccontato, segue una precisa strategia conoscitiva, basata sulla predisposizione all’ascolto e quindi sull’interazione con ogni possibile interlocutore.
La stessa dicitura di diario di viaggio non è del tutto esatta, in quanto Le voci di Marrakech nasce più come un resoconto elaborato a posteriori, grazie al ricorso alla memoria. Motivo per cui la sua pubblicazione avviene a circa dieci anni di distanza dalla reale esperienza di viaggio.
L’autore rivela, infatti, di non esser capace di raccontare nell’immediato l’incredibile varietà di emozioni, incontri ed esperienze che all’epoca lo travolsero, tale era la loro densità.
Non a caso, il suo libro nasce dalla necessità di mettere una distanza tra l’esperienza e la sua scrittura: per Canetti scrivere è un atto che ha lo scopo di riattivare l’esperienza, con l’ausilio della memoria autobiografica, in un modo diverso, capace di restituire una sua dignità al viaggio, senza mortificare l’essenza degli eventi che l’hanno costituito.

Il libro è suddiviso in 14 capitoli autonomi rispetto all’opera, ognuno dei quali apre una finestra su uno scenario particolare, caratterizzato da un incontro o da una scoperta.
La narrazione, invece, si dispiega su un doppio binario temporale: da un lato segue il tempo del viaggio, dall’altro quello della narrazione, la quale scorre via seguendo un tempo anarchico, sempre pronto ad obbedire alle necessità del narratore.

Il filo conduttore che tiene insieme tutto in modo unitario, però, è solo uno ed è quello del ritorno dall’esilio o così l’ha definito l’autore.
E per capirne il motivo basterà leggere le pagine che raccontano della mellah, ovvero il quartiere ebraico: uno dei passi più belli del libro, dove emerge la profonda nostalgia dell’autore verso una propria comunità.
Nostalgia che in quella piazza, densa di vita e di suoni, viene guarita per un istante dalla sensazione di essere tornato alle proprie origini, alla religione ebraica, a una meta a lungo cercata.

Nonostante il giogo arrogante del proprio vissuto, però, lo scrittore cerca l’incontro con i paesaggi e ciò che li anima nel modo più autentico possibile, così da evadere dai soliti stereotipi che ingabbiano i luoghi nella cornice patinata de Le Mille e una notte.
È così che, se all’inizio i cammelli sono i tipici animali carichi di poesia, capaci di imprese epiche, a uno sguardo più attento vengono inquadrati da una realtà ben più cruda, che li vede compiere lunghi viaggi, ma su furgoni pronti a scaricarli al macello, dove verranno massacrati.

Perché alla fine Le voci di Marrakech è molto di più di un libro: è il racconto di una città ricca di fascino, che ti intrattiene mentre dà uno schiaffo culturale ai soliti pregiudizi che più che esaltare i luoghi li mortificano.

Recensione di: Gabriella Ferracane.

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