Copertina del libro
Copertina del libro "Lo rifarei! Una vita tra i figli dei fiori" di Camila Raznovich

Se vuoi sapere dove vai, devi sapere da dove vieni“. Così recita il Talmud.

Quello che siamo e quello che facciamo dipende in maniera preponderante dal nostro vissuto che, in un modo o in un altro, ci ha forgiato. Ed è quello che succede in “Lo rifarei!” di Camila Raznovich, un libro snello in cui ripercorre la prima parte della sua vita, vissuta in un ashram in India in modalità figlia dei fiori.

Ciò che quell’esperienza mi ha lasciato, oltre a un bagaglio esistenziale indubbiamente fuori dal comune, è anche l’immensa difficoltà nel riuscire a fidarmi e ad affidarmi al prossimo: quegli anni mi hanno instillato un bisogno incessante di controllo, una grande insicurezza emotiva e la necessità costante di essere amata e rassicurata.

Vivere in un ashram

Camila ha solo 5 anni quando i genitori, borghesi alternativi, rompono le regole e decidono di abbandonare la vita normale per unirsi alla comunità di Osho, leader spirituale dell’amore libero e della ricerca della felicità individuale come fine supremo. Diventa così una figlia dei figli dei fiori, una bambina che cresce all’ombra degli ashram hippy, tra meditazioni, musica, danze, sesso libero, totale condivisione dei beni e continui spostamenti in giro per le comunità del mondo. 

Vivere in un ashram è una sorta di esperimento antropologico.

Qualcosa come 10mila persone provenienti da tutto il mondo, tutte seguaci di Osho, mistico indiano e re dei frikkettoni, che promuove la ricerca della felicità come bene primario e dell’amore, quello con la A maiuscola. Vestiti con larghe tuniche delle tonalità del sole, i seguaci di Osho costituiscono una comunità hippie parecchio spartana in cui tutti condividono tutto (spazi e beni materiali compresi) in un’atmosfera gioiosa e colorata. Una delle regole fondamentali è lasciare che i propri figli si rapportino col resto del mondo senza alcun filtro; l’idea era che i bambini fossero i figli di tutti, e quindi che tutti fossero genitori, al di là della paternità biologica. Risultato: trecento fratelli provenienti da tutto il mondo, un melting pot culturale come pochi altri. In comune, solo la scelta dei rispettivi genitori di seguire gli insegnamenti e lo stile di vita di bhagwan, il Maestro.

Seguendo un rigido regime di dieta vegetariano-macrobiotica, in ashram si vive in maniera libera in tutti i sensi. “A 6 anni fumavo sigarilli di eucalipto, ascoltavo Astor Piazzolla e chiamavo le cose col loro nome”, ricorda Camila. Nudità e fisicità non erano di certo concetti tabù. “A casa” prosegue l’autrice “mi insegnavano il nome delle cose, niente pistolino e patatina. A me hanno sempre parlato di tutto con molta onestà, di sesso, di droga, di vita. Alle mie domande ricevevo risposte, non giri di parole imbarazzate per evitare l’argomento”.

Un’altra delle regole base della vita in ashram è il cambio del nome. La protagonista del libro non era più Camila ma Anand Camla, e i suoi amichetti Venu, Sharna, Darsen, Prapatti, Devaki e via discorrendo.

Può sembrare una sciocchezza ma cambiare il nome, un po’, destabilizza”, spiega l’autrice.

Ed ecco il primo (non per importanza nè in senso cronologico) fattore che porta a riflettere non solo te lettore che, quasi certamente, non hai vissuto un’infanzia così particolare, ma la stessa Raznovich.

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Le ripercussioni nella vita adulta quando si è cresciuti in ashram 

In un’intervista Camila Raznovich ha dichiarato: “il libro mi ha permesso di riconciliarmi con questa parte strana della mia esistenza. Per anni ho vissuto una dicotomia tra la vita con i miei genitori in India e quella dopo, carriera, soldi, paillette. Ho due anime. Questo libro le rimette insieme“.

Questa dichiarazione la dice lunga, e ci fa ben comprendere che la vita in un ashram, tutta pace amore e “volemose bene”, non è poi così tutta rose e fiori.

Non è difficile da immaginare: crescere in una realtà così lontana dal consueto lascia tracce indelebili.

Il rientro a Milano da ragazzina non è di certo stata cosa facile per Camila che, infatti, afferma “Oggi, superati i 30 anni, di paragoni ne ho e posso finalmente capire l’unicità della mia infanzia.

Ma quando avevo 14 anni non avevo le idee così chiare, non sapevo da che parte ero voltata”.

Non rinnego e non ripudio il passato”, spiega “devo però cercare la mia strada. La ricerca della comunione dei due aspetti della mia vita, delle due forze che l’avevano guidata fino a quel momento, due energie così diverse tra loro da creare una specie di schizofrenia dell’anima….. una crepa che non mi consentiva di stare in pace e trovare un equilibrio, una mia identità”.

E ancora afferma “dovevo trovare un modo per mettere pace tra i miei primi 10 anni di vita a base di amore, gioco, celebrazione, spiritualità, libertà, insomma gli anni dei frikkettoni, e i successivi, fatti di scuole, di normalità borghese, di regole e di convenevoli”.

Del resto, come tutti noi, da bambini non abbiamo possibilità di scelta autonoma. E i primi 10 anni di esistenza della Raznovich sono stati legati alla scelta dei suoi genitori.

Non ha scelto liberamente Osho, se lo è ritrovata come un nonno. Le ha regalato un sogno, un cammino, un modo di vedere la vita.

Pur non rinnegando i valori appresi, ne ha pagato le conseguenze. Lei stessa riflette: “sarà per questo che oggi tutelo i miei spazi e ne sono molto gelosa. Amo stare da sola, prendermi il mio tempo e coccolarmi nella mia solitudine …… E questo è uno dei punti cruciali della mia esistenza: il disprezzo e al contempo la fascinazione per una vita più normale, più inquadrata”.

Un viaggio dell’anima

Da Milano a Poona, passando per Londra a Berlino, Camila Raznovich racconta il suo vertiginoso viaggio di ragazzina amata e protetta nel cerchio magico della vita comunitaria, poi abbandonata e costretta a contare esclusivamente su di sé quando si trova, all’improvviso, sola tra estranei in un college inglese in cui vengono allevati, lontano dalle loro famiglie, i giovani discepoli di Osho.

Queste pagine svelano un’identità forte, dipendente, ribelle. E un’ampiezza di vedute non comune, quella di una cittadina del mondo. Attraverso la sua infanzia nomade e il melting pot di culture che l’hanno contaminata, Camila dà voce a un’esperienza singolare, diversa, non solo come testimonianza autobiografica ma come ritratto di un’intera generazione poco conosciuta. 

Un’esperienza tremendamente profonda che ha segnato la sua protagonista nel bene e nel male.

Scrivere questo libro ha rappresentato per l’autrice un viaggio in cui ha cercato di mettere in ordine i tasselli del suo passato, una sorta di catarsi.

E alla fine, sulla scia di una sequenza di “Ho imparato che…” del capitolo finale, Camila arriva alle sue conclusioni che, caro lettore, non voglio dirti per non rovinarti il piacere di questa bellissima lettura!

Recensione di Federica Ermete

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