Copertina del libro "Lo spazio fra le nuvole. Il viaggio come cura” di Camila Raznovich
Copertina del libro "Lo spazio fra le nuvole. Il viaggio come cura” di Camila Raznovich

Si parte per curiosità, per conoscere l’altro, per scoprire se stessi, per cercare nuovi mondi, per guadagnarsi nuovi inizi…”.
Thailandia, Berlino, Londra, New York, India, Argentina, Sudest asiatico… Se stai cercando tutto questo e molto altro, “Lo spazio fra le nuvole – Il viaggio come cura” di Camila Raznovich è il libro che fa al caso tuo!

La conduttrice del Kilimangiaro si racconta, parlando delle sue esperienze in giro per il mondo e del senso che per lei hanno avuto. Mete comuni, forse anche “banali”, ma vissute e interpretate con una profondità d’animo e una sensibilità segnate da un’infanzia hippie all’interno di un ashram, struttura tipicamente indiana dove si vive in una comune, allo scopo di ricercare il proprio Io spirituale grazie alla preghiera, la concentrazione e la meditazione.

“Il viaggio mi ha sempre aiutato a resettarmi: sono partita piena di punti interrogativi, di ansie e di pensieri e sono tornata più leggera, lucida e libera. Nel frattempo, ho tagliato rami secchi, mi sono svuotata del superfluo per fare spazio al nuovo.”

“Lo spazio fra le nuvole – Il viaggio come cura”

Il sottotitolo del libro la dice lunga, anzi tutta. Camila Raznovich, infatti, spiega cosa il viaggio significhi per lei.

Ripercorrendo quarant’anni di partenze e ritorni, dal primo viaggio, appena diciassettenne, in Grecia, all’ultimo, con le figlie Viola e Sole, in Thailandia, passando per Berlino, Londra, New York, ma anche l’India, l’Argentina, e il Sudest asiatico, ogni volta Camila è partita con una domanda, e ogni volta ha fatto ritorno con la risposta di cui aveva davvero bisogno, aggiungendo un prezioso tassello alla consapevolezza di sé: “Si parte sempre per lo stesso motivo: per crescere. Perché solo così si riesce a svuotarsi per ritrovare poi un equilibrio; a fare spazio a ciò che sta per accadere”.

Il punto focale del libro, il concetto attorno al quale ruota il senso del testo, è proprio il fatto che il viaggio rappresenta un mezzo per trovare risposte (alle domande che ognuno di noi ha) e per scoprire se stessi realmente.

“Lo spazio fra le nuvole – Il viaggio come cura” interpreta il viaggio come uno strano mezzo di trasporto per l’anima. La Raznovich spiega meglio: “Ci porta fuori da noi stessi per ricondurci al nostro centro, finalmente pronti ad accogliere il cambiamento che allora, potente come un fiume in continuo e armonioso divenire, potrà attraversarci senza far rumore, portando via con sé parti care ormai superflue, e purificando tutto il resto… Il viaggio mi ha sempre aiutato a resettarmi: sono partita piena di punti interrogativi, di ansie e di pensieri e sono tornata più leggera, lucida e libera. Nel frattempo, ho tagliato rami secchi, mi sono svuotata del superfluo per fare spazio al nuovo”.

Con un riferimento al bellissimo, quanto mai veritiero – e a me tanto caro – concetto dei “personaggi pirandelliani”, l’autrice spiega che viaggiare ci aiuta a capire chi siamo; spostandoci al di fuori della nostra zona comfort, possiamo confrontarci con la nostra essenza, senza il peso dei ruoli che rivestiamo, dei titoli che abbiamo, dei lavori che facciamo.

Con una simpatica metafora, Camila definisce il viaggio come “il miglior centro estetico del mondo. Questo esercizio è un peeling fisico, mentale, psicologico, emotivo che elimina tutte le cellule morte: chi pensavamo di essere, cosa pensavamo di avere.

Insomma, il viaggio ha un potere “medicamentoso”.

Un altro suo vantaggio curativo è il fatto che aiuta ad aprirsi. Ciò trova fondamento in un altro aspetto che l’autrice cita come gli “amici temporanei”. Con gli sconosciuti capita spesso, infatti, di provare una forte empatia e di confidarsi in maniera intensa. Non sapendo quanto è il tempo a disposizione, si fa una spietata selezione di ciò che conta, e ce lo si racconta in un secondo, senza filtro. Nella vita reale, invece, tutto è molto più lento e innaturale; siamo più diffidenti e impegnati tra le mille incombenze quotidiane.

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“Lo spazio fra le nuvole – Il viaggio come cura”: un libro in cui è facile immedesimarsi

Ho letto questo libro o – per meglio dire – l’ho letteralmente divorato con un approccio emotivo.

Mamma mia come mi sono riconosciuta! In più punti ho percepito un livello di immedesimazione a dir poco imbarazzante, sia per i valori etici sottesi e il modo di concepire il viaggio, sia per le esperienze vissute (ho rivissuto l’India e la Cambogia ed ho sognato Bolivia e Argentina…) Spesso e volentieri mi sono ritrovata a leggere ammiccando sorrisetti e scuotendo la testa nei passaggi in cui mi ritrovavo di più!

Come per l’autrice, anche per me, il viaggio è qualcosa di totalmente differente da una vacanza rilassante. “La ricerca dello stupore è il solo motore che ci spinge alla partenza… Non si parte per divertirsi o rilassarsi, secondo me: si parte per uscire da ciò che si conosce, per stare scomodi e, da quella prospettiva, scoprire se stessi nel confronto con l’ignoto”.

Ed anch’io la penso esattamente così. Guai dunque a chi, quando sono in procinto di partire, mi augura “Buona vacanza” o, peggio ancora, “Divertiti”. Orgogliosa, rispondo sempre che io non faccio vacanze ma viaggi. E c’è una gran bella differenza!

L’autrice chiarisce che si parte con una domanda ma non si torna mai con una risposta certa ed immediata. E anche in questo concetto, quanto mi sono rivista!

Alcune esperienze, è il caso delle cosiddette destinazioni “difficili”, necessitano di tempo per essere metabolizzate. Fra tutti, ricordo l’India: ero partita entusiasta, ho vissuto giorni difficili dal punto di vista emotivo e igienico, costantemente frastornata da rumori e gente assillante; tornata a casa, col passare dei mesi, riflettendo e ripercorrendo l’esperienza anche grazie a mostre fotografiche allestite e conferenze tenute, ho finalmente capito.

Metabolizzandola, ad oggi, l’India non l’ho ancora digerita. E a chi, essendoci stato, mi sprona a riprovarci – magari esplorando un’altra zona – rispondo che no, non sono ancora pronta.Viaggiare, soprattutto in certi contesti, ti costringe a porti delle domande e a fare delle riflessioni anche molto profonde.

Anche l’autrice del libro, in India, non è infatti riuscita a comprendere appieno l’atteggiamento remissivo e passivo della gente di fronte all’arcaica suddivisione in caste sociali.

Così pure il Sudest asiatico lascia perplessi. La Raznovich descrive benissimo gli interrogativi da me provati in Cambogia, Bali, Sri Lanka…

In questi luoghi ci si imbatte continuamente in sorrisi sereni. Sorrisi di chi non ha nulla e lavora duramente tutti i giorni per pochi centesimi. Una – seppur minima – riflessione mi pare obbligata. L’autrice esprime questo pensiero dicendo: “Noi apparteniamo a quel 5% di popolazione mondiale che può concedersi qualsiasi desiderio e capriccio. Lì (Sud America, India, Sudest asiatico…) la gente campa senza le comodità cui siamo abituati, si accontenta di ciò che ha e vive nel rispetto della natura e delle tradizioni. Perchè invece noi privilegiati non riusciamo ad accontentarci mai???”

Io me lo chiedo sempre: mentre sono in viaggio e, soprattutto, i primi momenti a casa…

Di risposte ne potrei anche avere… Ma quel che è certo è che, ogni volta, il senso di inadeguatezza e disagio mi pervade fin nel profondo. Al punto tale, in alcuni casi, da farmi quasi vergognare: di me, di quel che sono, di ciò che ho, di quello che faccio e che, nonostante tutto, ho ancora il coraggio di lamentarmi

L’autrice dà una risposta che potrà anche sembrare banale ma che ha certamente un senso: “Se non si possiede niente non si ha nulla da perdere; in Occidente ci affanniamo per accumulare beni materiali, salvo poi tremare di paura all’idea che ciò che abbiamo ci venga portato via. Ma alla fine, a conti fatti, è proprio vero che questo secondo modo di vivere (cioè il nostro) è davvero migliore?

E via dunque con l’ennesimo quesito esistenziale!

Il viaggio, un bagaglio culturale senza eguali

L’apoteosi della mia stima per l’autrice culmina nel penultimo capitolo, quello in cui racconta del primo “grande viaggio” con al seguito le due figliolette di 7 e 4 anni.

Io non sono mamma, per scelta e per cause di forza maggiore, non me ne dispiaccio e non ne soffro, anzi. A volte, però, mi diverto ad immaginarmi in vesti materne e penso: “Ma mi ridurrei anch’io così?!? Per 10 anni consecutivi a Jesolo o Cattolica? A scendere in spiaggia alle 7 di mattina e scapparmene alle 10 perchè il sole inizia a scottare troppo? E niente bagno per almeno 3 ore dopo il pasto???

Oh my God, noooo!!! Io sarei come la nostra Camila che, dopo questa lettura, ho eletto ufficialmente a mio mito ed eroina.

Checchè ne dicano i borghesotti benpensanti che criticano chi porta i bambini piccoli all’estero, sarà anche un banale eufemismo ma, a parer mio, non è mai superfluo ribadirlo (soprattutto coi tempi che corrono…) che il viaggio è un bagaglio culturale incomparabile; nessun libro nè insegnamento lo può superare. Guardando con i propri occhi com’è davvero il mondo, e non limitarsi a ciò che passa in TV, permette di superare pregiudizi e chiusure mentali.

Io l’ho compreso da adulta; ho infatti iniziato a viaggiare insieme a mio marito, con cui condivido ideali, pensieri e avventure per il mondo, e quando me lo sono potuta permettere autonomamente dal punto di vista economico. Da piccola, purtroppo, non ho avuto la fortuna di avere una mamma come Camila Raznovich.

Ma non mi lamento, mi son rifatta da me!

Recensione di Federica Ermete

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