Copertina del libro
Copertina del libro "Viaggio di una parigina a Lhasa" di Alexandra David Néel

L’Oriente ha sempre esercitato un fascino particolare su studiosi, avventurieri e viaggiatori. Soprattutto il Tibet, con le sue terre remote e i suoi misteri, è sempre stata una forte calamita, specie ai tempi in cui la vetrina di internet non esisteva e il privilegio di accedere a certi luoghi, anche solo con lo sguardo, spettava solo a coloro che avevano la fortuna di poter mettere piede in quei paesi che parevano esistere solo dentro ad antiche leggende.

“È un mio principio non accettare mai una sconfitta di qualsiasi natura possa essere e chiunque sia a infliggermela.”

UNA DONNA FUORI DAL COMUNE E IL SUO VIAGGIO PROIBITO

Ed è proprio sotto l’effetto di questa fortissima attrazione che Alexandra David-Néel decide di diventare la prima donna occidentale ad entrare a Lhasa , impresa che riuscirà a compiere nel 1924, solo dopo tre anni di cammino e che poi racconterà nel libro Viaggio di una parigina a Lhasa.
All’epoca, infatti, l’ingresso nella capitale del Tibet era proibito agli stranieri e proprio per aggirare tale ostacolo la scrittrice decide di travestirsi da mendicante tibetana e di intraprendere un’avventura che la vedrà partire dalla Mongolia e attraversare il Tibet. Un viaggio nato da un fortissimo desiderio di conoscenza e da una curiosità vivacissima verso le terre, la gente e i costumi di un paese capace di mettere a dura prova qualunque viaggiatore.
Alexandra David-Néel , però, era pronta a tutto, grazie ad una tempra e un’esperienza che farebbero impallidire anche i più grandi esploratori mai ricordati. Non a caso visse fino a 101 anni, dopo un’esistenza che la vide essere un’incredibile esploratrice, ma anche una fotografa, un’orientalista, un’antropologa e una scrittrice.

Nel suo libro racconta il viaggio tanto agognato in una forma che a tratti assume i toni di un reportage e in altri momenti si delinea più come un diario.
La sua impresa si fa titanica già in partenza, per la scelta coraggiosissima, ma in fondo necessaria, di affrontare l’intero viaggio a piedi. Un’avventura compiuta a 55 anni, in compagnia del figlio adottivo Aphur Yongden, monaco Lama tibetano.
Un compagno di viaggio fondamentale, che si rivelerà un vero e proprio deus ex machina. Il suo contributo, infatti, permetterà alla scrittrice di arrivare alla meta evitando i pericoli maggiori, tra cui quello di essere smascherata e respinta prima di raggiungere la città tanto sognata.
Ma soprattutto un abile oratore, capace di raggirare quei banditi e predatori che quasi sempre vengono evitati con astuzia o grazie ai tipici discorsi da Lama, che hanno sempre un certo ascendente sui comuni mortali.

UN CAMMINO LUNGO TRE ANNI VERSO IL PAESE DELLE NEVI

Nel lungo peregrinare madre e figlio valicano colli dalle altezze superiori ai 5.000 metri, guadano fiumi con l’ausilio di una sola corda e dormono quasi sempre all’addiaccio, potendo contare esclusivamente su una piccola tenda ed un braciere alimentato con pochi ciocchi di legno e con sterco secco di vacca e capra.
Grazie alla costante narrazione e descrizione di ogni particolare evento, difficoltà o situazione, di pagina in pagina il lettore viene subito catapultato nello scenario del momento, senza possibilità di sottrarsi all’istinto di mettersi nei panni di una donna che è riuscita a viaggiare con pochi stracci addosso, con scorte di viveri quasi inesistenti, vagando per sentieri e boscaglie costantemente esposte alle minacce di animali selvatici o all’assalto di bande di briganti.
Una serie di insidie alle quali si aggiungeva anche il rischio di essere bloccati e catturati dalle autorità tibetane.

Il racconto viene delineato in maniera minuziosa, con un ritmo serrato e una dovizia di particolari che forniscono al lettore una visione completa su quello che è il percorso, le difficoltà incontrate ad ogni passo e le popolazioni che abitano le diverse regioni tibetane con i loro usi e costumi permeati da una cultura millenaria
Grazie a questa narrazione globale, dove il piano del romanzo s’intreccia con quello degli appunti di viaggio, del diario e del reportage, Viaggio di una parigina a Lhasa sembra quasi che a tratti prenda la forma di un’indagine antropologica vissuta in prima persona, azzerando qualunque distanza tra la cultura di chi osserva e quella nella quale la scrittrice si immerge. Una fotografia schietta e sincera che mette a fuoco una popolazione la cui vita sembra essersi cristallizzata. Ecco che leggere il libro di Alexandra David-Néel si trasforma subito in una grande occasione: quella di poter venire a conoscenza di una testimonianza di inestimabile valore. Una storia di vita che è anche un documento di un particolare momento storico.

Le parole con le quali ci regala il racconto degli incontri con i locali che le offrono generosamente ospitalità in casa propria sono come finestre spalancate su vite che non conoscono il benessere e i privilegi dell’Occidente. Le sue descrizioni sono come spioncini che ci permettono di scrutare una realtà povera ma ricca di valori e tradizioni che scavalcano qualunque barriera culturale, per creare ponti, incontri, scambi. Ed è così che, al di là dell’enorme riconoscenza verso la gente che la ospita, la scrittrice cerca di abbandonare le sue resistenze e i disagi creati da condizioni di estrema povertà. Come quella delle donne che, piene di buone intenzioni, le offrono i ritagli di un pezzo di carne affettato sul lembo di un vestito che da anni veniva utilizzato come panno da cucina e fazzoletto per il naso al contempo.
Oltre all’osservazione delle persone incontrate, anche la natura è una protagonista molto presente e le descrizioni di paesaggi, alture e boschi occupano un gran numero di pagine. Così come la narrazione delle difficoltà legate a un rigido inverno, affrontato con mezzi di fortuna e una buona dose di tenacia.

In conclusione Viaggio di una parigina a Lhasa è un libro che merita un posto in ogni libreria, perché al di là della cifra stilistica della scrittrice, la storia dell’impresa di Alexandra David-Néel è la massima espressione di quel desiderio di scoperta che sta dietro al muoversi di ogni vero viaggiatore. Un motore propulsore che non può condurre a nessuna destinazione se non si accompagna a una buona dose di apertura mentale, spirito di adattamento e grande forza di volontà. Perché alla fine dei conti viaggiare non è altro che mettere in moto la propria vita e la vita è un viaggio che si compie solo accettando di mettersi in gioco.

Articolo di Gabriella Ferracane

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